1° classificata
Linda Scuizzato
Sappi che
svelarsi non è cosa da poco
esporre accenti a maestri di retorica
mettermi nuda di fronte allo specchio – guardarmi ad occhi ermeticamente spalancati
sull’anima – Sappi che
schiudersi piano è arduo almeno quanto
sentirsi vergini a vent’anni
Non è come intingere e riempire le tele – spasmodicamente – allucinarsi poi di fronte ad esse
Ricomporsi/scomporsi – annientarsi/plasmarsi
Amarsi non è cosa da poco
per chi ha udito l’odore di acre
ha narici impastate e vorrebbe soltanto
essere dolce – schiudersi piano -.
2° classificata
Annalucia Lorizio
Ravenna: S. Vitale
Ci perdemmo così, fra una tessera
e l’altra d’un vitreo frammento:
tu scivolasti
dalla nettezza dell’oro
in paradisi di compatto splendore;
io m’immersi
nel tremulo azzurro
soggiogata da un acquatico albore
stemperato di verde…
Ci allontanammo così, fra una nota
e l’altra d’un diverso strumento:
io tenendo dietro a un violino
dal cuore stridente,
tu ammiccando a un clarinetto
d’ironico umore.
Ti persi di vista fra un acuto
e un grave su per la volta
di San Vitale…
Ci separammo per mesi o per ore?
Forse appena lo spazio di tempo
che indugia al varco fra l’oro e l’azzurro:
nella penombra spiccavan scintille
quando, ansante, ti vidi arrivare.
3° classificato
Roberto Del Duce
Se in punto di morte
ti avessi accanto
soffierei la mia settima vita
sui tuoi lunghi baffi
di gatta
poi chiuderei gli occhi
sui tuoi luminescenti
4° classificata
Valentina Bufano
Disincanto
Ristretto sul disincanto che mi scivola
quando al mattino il Sole si leva.
Coll’amico burattino ho ballato per strada
due lire a testa e a casa;
mi spiace di averlo buttato.
Ho in sospeso alcune cose: il come, il quando, il dove…
Intanto
i bersagli mobili continuano a vagare
ed è ancora disincanto
ancora stringente urgenza d’amare.
5° classificato
Enrico Calenda
Cielo celeste
Cielo celeste d’un sole radente
sulle facciate tese d’antichi palazzi e chiese
intorno all’ovale bacino allucinante
d’un brulichio di luci abbacinante,
che verso i canali serpeggia e si spande.
Questa sommessa attesa, quel mormorio
che dice e intorno si fa pace e salda intesa,
vivo concerto e umore antico, che nelle calli
parla e fra le porte aperte intesse la sua rete
col conservato accento, con ricche
schermaglie tese e il cicaleccio acceso
dei vivi mercati, intensi e colorati
giù dal ponte, nel labirinto di lavorati marmi,
fiori scolpiti ed ampi festoni,
volti di bimbi, santi e teneri sguardi
di stilizzate madri sulle lunette ai canti.
Si china un’anziana e porge cibo di pesce
ai gatti; tuba il colombo intorno
mentre corteggia mangia
chicchi di grano in piazza.
6° classificata
Alessandra Crabbia
Dies irae
11/9/2001
Devo dirti, figlia,
e non vorrei,
quel che nel mio abbraccio svanisce,
quel che nel mio canto s’abbuia,
quel che i miei ulivi stupefatti tacciono.
Devo dirti, vita mia,
dello stridere letale di carrucole nei pozzi avvelenati,
delle madri in lutto pietrificato dai seni gonfi di latte amaro,
devo dirti delle avide lordure degli affamatori con facce da avvoltoi,
devo dirti la miseria di una briciola di pianeta perso nell’universo
inconsapevole e con occhi bucati,
che s’ostina a bramare, a uccidere,
a forgiare pesanti anelli per catene di morte.
Io t’ho solo portato nel ventre come una scintilla di luce,
t’hanno nutrita di sole le mie viscere,
t’ha riscaldato il futuro il balzo rosso del mio cuore.
T’ho forgiata per essere divinamente umana,
per avere passi di cerbiatta innamorata
e melodie notturne sotto lune eburnee.
Perciò io dichiaro la pietà,
pietà per le madri, anfore sacre di vita,
pietà per i figli, casti frutti dell’amore,
pietà per i padri, stritolati tra le ruote dentate d’ingranaggi infernali,
e per te, frutto della mia anima carnale.
Io non t’ho fatta sorgere per il ferro e la clava:
sia la tua carne impastata di Dio,
siano le tue mani templi di meraviglie,
sia il tuo cuore selvaggio airone in volo
sopra lontane pianure piene di lacustre bellezza,
dove non s’oda il pianto,
né vinca il nero abissale della bestia umana.
E taccio dunque oggi, figlia:
la lampada s‘è spenta,
ed io ti sto scrivendo
nell’oscurità.
7° classificato
Antonio Pucciarelli
Invettiva
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Dante Alighieri
(Inf. IX, 97)
O fato, mostruosa imperitura potenza ineluttabile e beffarda,
tu che da chissà dove noi inermi candidi e miseri mortali,
marionette imperfette, ma superbe ed illuse di scegliere la via,
qual salami appesi in bella mostra ai ganci d’una drogheria
tieni mani e piedi legati ai tuoi ben saldi e invisibili fili,
che dall’alto – si dice – muovi e manovri come meglio ti garba,
tu, alma forza divina, implorata energia arcana ed invincibile,
che sull’universo domini e impietoso governi uomini e cose,
ed in questa imperscrutabile farsa tragica che è l’umana vita,
nella quale, ahi noi!, in poche ore ci giochiamo la partita,
decidi se il cammin nostro cosparso sia di spine o di rose
e stabilisci perfino ciò che a noi deve restare inconoscibile;
tu che per noi fissi e decidi la parte che sulla terra ci tocca recitare
e di ciascuno fai un eroe o un buffone, un peccatore o un santo,
e non solo pretendi d’indirizzar le nostre più recondite intenzioni,
ma ti diletti financo a rovesciare beate e già consolidate situazioni,
senza poi considerare che a un dài poco o nulla e a un altro tanto,
uno lo colmi d’amore e consumi un altro dalla voglia d’amare;
io mi ribello al modo iniquo e arbitrario con cui gestisci il tuo potere,
e con tutto me stesso ti maledico e con odio contro di te covo vendette.
Sì, so bene che per tua natura sei così potente che le puoi schivare,
anzi che sei così malvagio ed empio che ti potresti a tua volta vendicare,
raddoppiando la mia dose di sciagure o tagliandomi addirittura a fette…
Ma, finché campo dallo scagliarmi contro di te non mi puoi rattenere!
8° classificato
Matteo Kettmaier
Il mattino della città
Molto sotto a un soffitto di ametista
bagnata, si ripete la commedia
perpetua, e tento di fuggire
rincorrendo un frammento di
sogno che fugge negli angoli verdi
degli occhi di una ragazza. La scommessa
sulla vita di un barbone ancora
dormiente accoglie barcollii di
corpi appesantiti e rinate
consapevolezze che schiacciano teste
sotto il piede del pentimento. Col dolore
del bambino che nasce, la vita riprende
i suoi posti – tutti giusti! – e, bagnati di placenta notturna,
ci disperiamo, e strilliamo prima
di rassegnarci alla luce di
una vita che non ci appartiene.
9° classificata
Katia Paola Elena Righini
Gli aquiloni
Vola alto e nero il mantello che portiamo
a fare ombra al nostro cammino
a oscurarci la vista del cielo e
degli aquiloni in aria librati.
La corrente del fiume trascina con sé le nostre canzoni
mentre dalla sponda, in elegante grigio vestiti,
stiamo a guardare.
In file ordinate siamo pronti a marciare
il futuro in tasca in una bibbia già scritta
e nessuna incertezza sulla via da seguire.
Vola alto il mantello e nero
sul cerchio delle nostre vite
ormai spezzato
sulle nostre intenzioni
abbandonate al vento
come un palloncino
sfuggito in un baleno
dalle mani di un bambino.
10° classificato
Matteo Tabacchini
Efumnion
La nostra corona
è il filo spinato
dell’immaginazione
non occhi per vedere
ma nevrotici bulbi
di vetro
Signore pietà.